PREMESSA

Vari amici e allievi mi chiedono da tempo di pubblicare le dispense dei miei corsi romani sul Leopardi (’64-65, ’66-67); me lo chiede Sebastiano Timpanaro che apprezzò molto la parte sulle Operette morali, pubblicata nel 1987 dall’editore Marietti con il titolo Lettura delle Operette morali. Notava Timpanaro che, sulla base della parte dedicata alle Operette morali, si poteva ben capire come quelle dispense fossero tanto piú analitiche, ricche di interpretazioni di singoli testi che non la Protesta di Leopardi (Sansoni, 1973) in cui avevo ripreso – dopo una loro prima utilizzazione nell’introduzione a Tutte le opere del Leopardi (Sansoni, 1969) – il succo delle loro analisi tanto piú ampie e dettagliate.

Ho quindi accolto volentieri la proposta della Nuova Italia di pubblicare nella collana «Lezioni» quelle dispense universitarie di cui Roberto Cardini, che ringrazio, curò con grande perizia e fedeltà la redazione originaria, e che oggi appaiono con il titolo quanto mai appropriato di Lezioni leopardiane, anche grazie all’aiuto di Novella Bellucci, del suo allievo Marco Dondero e di mio figlio Lanfranco.

Nel mio lungo percorso leopardiano (dal ’33 a oggi) le lezioni del triennio ’64-67 rappresentano un momento essenziale e centrale. Ma il percorso è in realtà ancora piú lungo, e risale alla mia adolescenza: in quegli anni Leopardi fu il maestro essenziale della mia formazione. Proprio verso i quattordici-quindici anni la prospettiva atea e materialistica del grande poeta alimentò e sorresse la mia crescente incredulità e perfino un certo smanioso bisogno di demolire tutte le credenze tradizionali cattoliche, a cominciare dalla credenza nell’immortalità dell’anima.

C’era in me una radice di disposizione a una consonanza di fondo con le posizioni leopardiane. E tale consonanza, sviluppatasi nella mia indole malinconica e pessimista, si nutrí della crescente lettura dei Canti e delle Operette morali durante la mia adolescenza e prima delle sbiadite lezioni sul Leopardi, in terza liceo, di un insegnante-supplente privo di intelligenza e di sensibilità. La consonanza con Leopardi era in me vivissima soprattutto per ciò che riguardava il problema dell’aldilà. Ricordo bene quanto rimasi avvinto dalla lettura in un’edizione napoletana dei Canti, di metà Ottocento, che possedevo, della prima canzone sepolcrale: «Dove vai? chi ti chiama / lunge dai cari tuoi, / bellissima donzella? / [...] / morte ti chiama; al cominciar del giorno / l’ultimo istante. Al nido onde ti parti, / non tornerai. L’aspetto / de’ tuoi dolci parenti / lasci per sempre. Il loco / a cui movi, è sotterra: / ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno».

Ma la mia piú decisa immersione nell’opera leopardiana e la consonanza piú profonda con le posizioni del Leopardi a fondamento della sua poesia, coincise con il mio arrivo a Pisa, alla Scuola Normale Superiore, nel ’31, quando mi accinsi a leggere tutte le sue opere e i relativi studi critici, anche stimolato da un primo maestro essenziale dei miei diciott’anni, Aldo Capitini; leopardista e leopardiano, egli tuttavia accettava parzialmente il pensiero di Leopardi, il suo pessimismo, il suo orrore dell’esistenza basato sulla legge del “pesce grande che divora il pesce piccolo”, da lui svolto in una prospettiva di libera religione e sin dalla “compresenza dei morti e dei viventi” in una realtà liberata della violenza e della morte.

Nello studiolo di Capitini, nella torre campanaria del Municipio di Perugia, fra gli altri libri, sceltissimi e pieni di fitte, ricchissime annotazioni di quell’autodidatta di eccezione, c’erano anche i Canti di Leopardi commentati dallo Straccali, e su quel commento durante le vacanze del ’32 assimilai l’opera poetica leopardiana, minutamente, canto per canto, assorbendo anche gli stimoli di quelle annotazioni del maestro-amico, fertilissime di intuizioni eccezionali. Mentre estendevo il mio possesso dell’opus leopardiano con l’attenta lettura delle edizioni con varianti di Canti, Operette morali, Opere minori del Moroncini entrando nell’interno dell’elaborazione leopardiana. E alla Normale, nell’anno ’32-33, scelsi come argomento del colloquio annuale normalistico con Attilio Momigliano tutta l’opera di Leopardi e la relativa critica.

Sicché subito dopo, alla fine del ’33 (intanto la mia irrequietezza e scontentezza di me stesso veniva fortunatamente placata e commutata in volontà di azione civile antifascista e di penetrazione critica grazie a molti incontri di amici e maestri e soprattutto all’incontro e all’ambitissimo assenso di quella che, da compagna di studi, divenne la compagna di tutta la mia vita), progettai per la mia tesina di terzo anno l’interpretazione dell’ultimo periodo della lirica leopardiana. Questa interpretazione, discussa nel giugno del ’34 con Momigliano, piacque molto al Maestro, anche se la sua lettura leopardiana era diversamente orientata e pur ricca di spunti che approfonditi avrebbero portato anch’essi assai lontano dalla linea “idillica” di impronta crociana e poi derobertisiana. E soprattutto piacque a me, e attraverso un articolo frettolosamente steso per un volume di scritti in occasione delle celebrazioni dei grandi marchigiani uscito nel ’35, la mia impostazione della poetica eroica dei canti dal Pensiero dominante alla Ginestra colpí un lettore attento come il Sapegno che giustappose al Leopardi idillico questa svolta eroica nel terzo volume del suo Compendio della letteratura italiana del 1946.

Superata la prova della tesi con Luigi Russo nel ’35, che la volle pubblicata dall’editore Sansoni con il consenso di Giovanni Gentile (La poetica del decadentismo del ’36), e la dispersione tutt’altro che inutile di saggi su contemporanei e recensioni fra estetiche ed etico-politiche specie su «Letteratura» in anni occupati dal servizio militare, dall’insegnamento nella scuola media superiore e poi all’Università per Stranieri di Perugia, e da un’intensa attività politica antifascista che avrei proseguito come deputato socialista all’Assemblea Costituente, dopo altri lavori su Alfieri, su Ariosto e sul preromanticismo italiano, fui ripreso dalla passione leopardiana. Dopo aver antologizzato ampiamente e con notevoli novità l’opera leopardiana nel terzo volume degli «Scrittori italiani» (La Nuova Italia, 1946, a cura di N. Sapegno, W. Binni, G. Trombatore), rielaborai la tesina del ’34 e su quella base assai approfondita e arricchita scrissi La nuova poetica leopardiana, che uscí nell’agosto ’47 da Sansoni, presso il quale usciva nello stesso mese Filosofi antichi e moderni di Cesare Luporini, che conteneva il saggio «Leopardi progressivo». L’incidenza della mia Nuova poetica leopardiana nella critica leopardiana, dopo un acre attacco del De Robertis nel suo purismo idillico, fu decisamente vincente e segnò (insieme al saggio piú direttamente filosofico di Luporini) una “svolta” che apparve per molto tempo irreversibile.

Poi nel ’60, cogliendo l’occasione di una conferenza a Recanati per il 28 giugno, anniversario della nascita del poeta, pubblicai sul «Ponte» un saggio, La poesia eroica di Giacomo Leopardi, che cercava di ampliare la raggiera della poesia non idillica leopardiana e di ridurre la cesura, certo eccessiva nel saggio del ’47, fra poetica idillica, cui consegnavo quasi tutta la poesia precedente al Pensiero dominante, e poetica eroica (la poetica della presenza e della coscienza di sé).

Dopo il saggio del ’60 decisi di tenere due corsi leopardiani all’Università di Firenze (1960-61, 1961-62) in cui feci una prima ricostruzione del percorso leopardiano e ne presi spunto per una lezione al Convegno su «Leopardi e il Settecento» a Recanati, nel settembre 1962 («Leopardi e la poesia del secondo Settecento», subito pubblicato nella «Rassegna della letteratura italiana») e per un breve saggio sulla eccezionale lettera romana del 15 marzo 1823 (sempre sulla mia rivista), mentre in un lungo seminario alla Scuola Normale Superiore (1962-63-64) sottoponevo lo Zibaldone a un esame capillare e per me importantissimo, senza il quale non avrei avuto la possibilità di eseguire la ricostruzione del pensiero e della poesia quale la presentai appunto nelle lezioni leopardiane romane che ora mi appresto a rendere pubbliche.

Con quelle lezioni romane oltretutto io immettevo i fermenti ribelli, protestatari di Leopardi nelle tensioni delle giovani generazioni che avrebbero avuto la loro maggiore esplosione nel ’68. Tanto che per molti di questi miei allievi quei corsi furono decisivi (come essi poi mi dissero) per la loro stessa formazione morale e politica. Quei corsi erano la parziale conclusione della mia esperienza leopardiana e l’iniziale base dei miei successivi interventi.

Nel ’68, in autunno, a Ortisei, tirai giú nervosamente un sintetico quadro dello sviluppo leopardiano ricavato da quelle dispense e prolungato, sulla base del volume del ’47 (e del volumetto del ’50, Tre liriche del Leopardi, Lucca, Lucentia), a una rivisitazione dell’ultimo e grande periodo della poesia leopardiana. Saggio che costituí l’introduzione, con il titolo «Leopardi, poeta delle generose illusioni e dell’eroica persuasione» all’edizione sansoniana di Tutte le opere del Leopardi, curata da me, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, mentre poi rafforzai gli elementi “protestatari” di Leopardi nel volume La protesta di Leopardi, Sansoni, 1973.

Ritenni quindi di dover ritornare sull’ultimo periodo leopardiano con un corso-seminario, in collaborazione con la mia allieva Bianca Maria Frabotta, corso che serviva anche a concludere un seminario pluriennale sulla critica leopardiana. Ne derivò una lezione a Napoli nel 1980 su «Poesia leopardiana negli anni napoletani» (poi pubblicata nella «Rassegna» sempre nell’80), mentre sette anni dopo, in occasione del 150° anniversario della morte del poeta, tenni un’altra lezione a un convegno leopardiano, a Napoli, promosso dall’Istituto Superiore di Magistero di Suor Orsola, Pensiero e poesia nell’ultimo Leopardi (pubblicata in un fascicolo dell’ESI nel 1987) e nello stesso anno commemorai quella ricorrenza in varie città dell’Umbria (Perugia, Terni, Foligno, Città di Castello).

Infine il 12 maggio del ’93, nel compimento dei miei 80 anni, entro i festeggiamenti che l’Università di Roma volle tributarmi, conclusi, penso per sempre, il mio lungo servizio prestato al “poeta della mia vita” con una lezione sulla Ginestra.

Roma, 4 maggio 1994

Walter Binni

Dedico questo volume alle due donne della mia vita: mia madre Celestina (detta Tina) Agabiti, morta poco piú che cinquantenne nel ’39, ed Elena, la mia compagna impareggiabile ormai da 60 anni.

Ringrazio la Casa editrice Marietti di avermi permesso di ripubblicare la parte dedicata alle Operette morali (Lettura delle Operette morali, Genova, Marietti, 1987) già estratta dalle lezioni romane e ora nella pubblicazione di quelle reintegrata, con alcune modifiche.